La luna nel pozzo - indice
SECONDO INCONTRO - parte seconda
La
Voce della luna
Verso la fine degli anni ottanta Federico
Fellini gira la "Voce della luna", un film che si apre
con questa scena: Ivo (Benigni), il protagonista, si avvicina
a un pozzo rischiarato dalla luna e appoggia la mano aperta all'orecchio,
come chi cerca di catturare un suono, una voce. "Non ascoltare
la voce dei pozzi, sono dei traditori, bisognerebbe chiuderli",
avverte qualcuno fuori campo. Segue la citazione del Poeta: "Che
fai tu luna in ciel? Dimmi che fai luna silenziosa?". E poi
il film propone un pasticcio di storie e personaggi: il musicista
che dorme nel cimitero, la movimentata relazione fra Marisa e
Nestore, un addetto ai tombini che ce l'ha con la luna perché
lo spia, il prefetto Gonella (Villaggio) affetto da mania di persecuzione,
la festa della gnoccata con l'elezione di miss farina, la diretta
televisiva del rapimento della luna con intervista al ministro,
e con l'attentato di un pazzo che spara alla luna ma non la uccide.
La luna, alla fine, brilla di nuovo in cielo e dice a Ivo: "Nulla
si sa, tutto si immagina, guai a capire
mi fai dimenticare
la cosa più importante: la pubblicità". Alla
fine Ivo si congeda dicendo: "Io credo che se ci fosse un
po' più di silenzio, se tutti facessimo un po' di silenzio,
forse qualcosa potremmo capire".
A proposito di scelta contenuti è interessante leggere
la scheda sul film riportata dal sito specializzato: http://kwcinema.play.kataweb.it/templates/kwc_template_2col/0,4858,10898-schedafilm,00.htm
Il mite mattocchio Salvini, convinto che in fondo ai pozzi
di campagna esistano messaggi misteriosi, trova un compagno di
vagabondaggi nel patetico e paranoico Gonnella, prefetto in pensione,
convinto di essere vittima di un complotto. È l'ultimo
e il più sconsolato film di Fellini (anche il primo ispirato
a una fonte letteraria contemporanea: Il poema dei lunatici, 1987,
di Ermanno Cavazzoni), e non soltanto per i temi di morte, follia,
vecchiaia, solitudine. Di costruzione frammentata e di disordinata
ricchezza inventiva (la moglie-vaporiera, la gnoccata, la discoteca
e il valzer), è un desolato commento sulla volgarità
e l'abominio del tempo presente, una fiaba contro il rumore di
fondo e sulla necessità del silenzio.
In questa sinossi la luna è sparita,
forse è finita nel pozzo. Uno dei rischi in cui si può
incorrere guardando troppo nel pozzo è quello di cascarci
dentro. La luna, non bisogna dimenticarlo, non è nel pozzo,
nel pozzo c'è solo la sua immagine. Voglio dire che lo
sguardo, quando scriviamo, va rivolto anche al di fuori di noi.
Le
Lezioni americane
Sei proposte per il nuovo millennio.
Le Lezioni Americane di Calvino sono
un esempio di quello che Kundera definirebbe un testamento tradito.
Quegli scritti erano stati redatti in vista di un ciclo di conferenze
che avrebbe dovuto tenere all'università americana di Harvard
fra il 1985 e il 1986. La volontà di pubblicarli così
come noi oggi li leggiamo non è di Calvino, ma della moglie
Esther che con il suo "tradimento" ci ha fatto conoscere
degli scritti di rara profondità. Calvino infatti muore
di ictus nell'estate del 1985, prima di partire per l'America.
Ci troviamo quindi di fronte a dei testi forse non completi, che
Calvino non avrebbe pubblicato così come sono (e già
questo è un testamento tradito, perché semplicemente
non sappiamo), ma probabilmente dalle osservazioni del suo uditorio
sarebbero nate delle integrazioni, delle modifiche.
Delle sei lezioni abbozzate manca la sesta, che avrebbe dovuto
essere dedicata alla Consistency.
Il titolo del libro è anch'esso un testamento tradito:
deriva dall'abituale domanda che Pietro Citati in quel periodo
rivolgeva a Calvino quando lo incontrava: "Come vanno le
lezioni americane?".
Quello scelto per le conferenze era infatti: Sei proposte per
il prossimo millennio o, in inglese, Six memos for the next millennium.
La cosa straordinaria è che quest'uomo, 25 anni prima della
fine del millennio, si era posto il problema di quali valori della
scrittura portare con noi nel passaggio da un'epoca all'altra.
E la cosa più straordinaria ancora è che individua
i valori della leggerezza, della rapidità, della esattezza,
della visibilità, della molteplicità. Non conosceva,
ma in modo geniale anticipava alcuni dei tratti peculiari di questo
medium e del nostro modo di vivere.
La leggerezza
In questi incontri proporrò solo i
temi della Leggerezza e della Molteplicità,
sia per ragioni di tempo, sia perché essi mi sembrano più
interessanti rispetto a Rapidità, Visibilità,
Esattezza. Il capitolo delle Lezioni Americane che
riguarda la Leggerezza è stato da me ricostruito in modo
del tutto personale. L'intenzione è quella di incuriosirvi
a leggere questo scritto e ad approfondirlo nelle sue innumerevoli
implicazioni. Un metodo da applicare in qualsiasi campo specialistico
in cui siate chiamati a trasformare i pensieri in parole, un modo
per arricchire il vostro pozzo.
La
leggerezza? Un salto
Di fronte allo sforzo di descrivere il mondo,
nasce in Calvino la necessità di togliere peso, di essere
leggero. La realtà, che nel suo svolgersi è pesante,
diventa pietra e trasmette questa sua pietrificazione alla scrittura.
Ecco lo sforzo di sfuggire alla Gorgone, mostro della mitologia
greca che aveva la capacità di pietrificare chi la guardasse,
e di sfuggire, con la leggerezza, alla pesantezza del vivere.
Il primo suggerimento è quello di muoversi come Perseo
con piedi alati e di sottrarsi a visioni consuete della realtà.
Paul Valery riassume il senso della leggerezza così: "bisogna
essere leggeri come l'uccello, e non come la piuma". Aggiungo
che il pozzo è pesante, ma senza un buon pozzo, senza un
pozzo da conoscere e da scrutare, non si riesce ad essere leggeri
come la luna, ed è la luna che sottrae peso al pozzo nel
modo di dire "la luna nel pozzo".
Calvino inoltre cita, riferendosi al De Rerum Natura di Lucrezio,
l'immagine del mondo come insieme di corpuscoli senza peso, di
atomi. Un'immagine aderente all'immaterialità di Internet
e delle sue scritture che poggiano tutte su impulsi e segnali
elettrici senza peso.
Ma che cosa significa essere leggeri? Leggiamo la novella di Boccaccio
su Guido Cavalcanti riportata da Calvino.
Ora avvenne un giorno che, essendo Guido
partito d'Orto San Michel e venutosene per lo Corso degli Adimari
infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino,
essendo arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata,
e molte altre dintorno a San Giovanni, e egli essendo tralle colonne
del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni,
che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo
su per la piazza di Santa Reparata, vedendo Guido là tra
quelle sepolture, dissero:"Andiamo a dargli briga";
e spronati i cavalli, a guisa d'uno assalto sollazzevole gli furono,
quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra e cominciarongli a
dire: "Guido, tu rifiuti d'esser di nostra brigata; ma ecco,
quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?".
A' quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: "Signori,
voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace";
e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì
come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato
dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se n'andò.
Questa novella me ne fa venire in mente un'altra,
sempre scritta da Boccaccio. Quella di Andreuccio da Perugia,
cozzone di cavalli (sensale) che si reca a Napoli per fare il
suo mestiere. Al mercato una bella siciliana capisce che egli
ha molti danari, lo invita nella propria casa nella contrada del
Malpertugio e gli fa credere che è sua sorella. Lo convince
a restare per la notte. Andreuccio si spoglia e si avvia a "diporre
il superfluo peso del ventre". Ma quando si siede sulle travi
poste in alto sulla stretta viuzza precipita e "della bruttura
di cui era pieno il luogo s'imbrattò".
Persi in un colpo cinquecento fiorini e la
presunta sorella, si avvia per gli oscuri vicoli di Napoli dove
incontra una brigata di ladri che gli propongono di depredare
la tomba dell'arcivescovo Filippo Minutolo, seppellito proprio
quel giorno con ricchissimi ornamenti e con un anello che vale
più di cinquecento fiorini. Lungo la strada Andreuccio
è calato in un pozzo affinché si lavi, ma la brigata
è costretta a fuggire per l'arrivo di estranei, i quali,
credendo di tirare su il secchio, sollevano dal pozzo Andreuccio
e fuggono a loro volta spaventati.
Può quindi riprendere il cammino verso la chiesa, dove
Andreuccio è costretto a calarsi nel sarcofago. Andreuccio
s'infila subito in tasca l'anello dell'arcivescovo e dal fondo
della bara consegna il pastorale, la mitria e persino la camicia
ai suoi compari, i quali però gli chiedono del prezioso
anello. Ma egli risponde che non lo trova e quelli tolgono il
puntello che teneva aperto il coperchio dell'arca e se ne vanno.
Andreuccio si dispera perché la situazione non sembra avere
alternative: o morirà fra i vermi accanto al vescovo o
lo impiccheranno come ladro.
Ma a un certo punto sente dei rumori, è un'altra compagnia
di mariuoli, fra i quali c'è un prete che dice che non
bisogna aver paura dei morti e posto il petto sopra l'orlo
dell'arca - scrive Boccaccio - volse il capo in fuori e
dentro mandò le gambe per doversi giuso calare. Andreuccio,
questo vedendo, in piè levatosi prese il prete per l'una
delle gambe e fè sembiante di volerlo giù tirare.
La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto
dell'arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri
spaventati, lasciata l'arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono
che se da centomila diavoli fosser perseguitati. La qual cosa
veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito
si gittò fuori e per quella via onde era venuto se ne uscì
dalla chiesa.
Andreuccio può così tornare
a Perugia con il suo anello e noi possiamo dire che la leggerezza,
in fondo, è un salto. Un modo inconsueto e nuovo di guardare
e di interpretare la realtà, una scelta di tempo. E' un
cambio di prospettiva: per esempio mi viene in mente Zeffirelli
che nel suo più recente allestimento dell'Aida, in teatri
di piccole dimensioni, ha scelto una soluzione geniale per la
scena conclusiva che prevede l'accorrere di una grande folla verso
un portone. Come ha fatto? Ha semplicemente girato il portone,
di modo che il pubblico si trova dall'altra parte e può
immaginare una folla sterminata. Un cambio di prospettiva mi ha
aiutato in un mio recente lavoro. L'associazione Áncora,
che da dieci anni organizza il mercatino dei ragazzi a Conegliano
per raccogliere fondi a favore di iniziative di solidarietà,
mi aveva incaricato di scrivere i primi dieci anni della sua storia.
Per ogni anno mi aveva fornito una serie di numeri riguardo alle
bancarelle dei ragazzi, ai partecipanti, al ricavo, alle personalità
presenti, al pubblico, agli enti beneficiari. Ho provato a scrivere
qualcosa con questi numeri, ma tutto ciò che scrivevo era
scontato, banale e noioso. Allora ho cambiato punto di vista,
ho scelto un modo diverso di raccontare i dieci anni dell'associazione.
Per ogni anno ho scelto un tema: un orfanotrofio in Bosnia, una
missionaria in Patagonia, la storia dei ragazzi senza famiglia.
Ho cioè spostato l'attenzione dal soggetto, l'associazione
Áncora, ai destinatari delle sue iniziative di beneficenza.
Il "salto", il salto di prospettiva di cui stiamo parlando
ha reso interessante il racconto di Marta che, come leggeremo
più avanti, ha riscritto il finale della storia del lupo
e della volpe.
Per Calvino le condizioni della leggerezza
sono tre:
Prima condizione della leggerezza:
un alleggerimento del linguaggio per cui i significati vengono
convogliati su un tessuto verbale come senza peso, fino ad assumere
la stessa rarefatta consistenza.
Nel libro, in questo punto c'è la citazione di una poesia
di Emily Dickinson, io invece vorrei riproporre l'interessante
confronto che egli fa nelle pagine precedenti fra un verso di
Cavalcanti e uno di Dante. L'immagine è quella della neve
evocata con diversa leggerezza.
Scrive Cavalcanti in un suo sonetto sulla donna amata:
Cantar d'augelli e ragionar d'amore;
adorni legni 'n mar forte correnti;
aria serena quand'apar l'albore
e bianca neve scender senza venti;
Scrive Dante nel XIV canto dell'Inferno, quello
dei violenti:
Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Se estrapoliamo le due immagini dal contesto:
"e bianca neve scender senza venti"
"come di neve in alpe sanza vento",
ci accorgiamo che non basta nominare un elemento leggero come
la neve, è importante che la leggerezza sia intorno ad
esso.
Scrive Calvino: Il verso 'e bianca neve scender senza venti'
è stato ripreso con poche varianti da Dante nell'Inferno.
I due versi sono quasi identici, eppure esprimono due concezioni
completamente diverse. In entrambi la neve senza vento evoca un
movimento lieve e silenzioso . Ma qui si ferma la somiglianza
e comincia la diversità. In Dante il verso è dominato
dalla specificazione del luogo ("in alpe"), che evoca
uno scenario montagnoso. Invece in Cavalcanti l'aggettivo "bianca",
che potrebbe sembrare pleonastico, unito al verbo "scendere",
anch'esso del tutto prevedibile, cancellano il paesaggio in un'atmosfera
di sospesa astrazione (mi permetto di aggiungere che anche
il plurale "venti" al posto di "vento" solleva
la nostra immaginazione con maggior velocità). Ma è
soprattutto la prima parola a determinare il diverso significato
dei due versi. In Cavalcanti la congiunzione "e" mette
la neve sullo stesso piano delle altre visioni che la precedono
e la seguono: una fuga di immagini, che è come un campionario
delle bellezze del mondo.
In Dante l'avverbio "come" rinchiude
tutta la scena nella cornice d'una metafora, ma all'interno di
questa cornice essa ha una sua realtà concreta, così
come una realtà non meno concreta e drammatica ha il paesaggio
dell'Inferno sotto una pioggia di fuoco, per illustrare il quale
viene introdotta.
La grande profondità delle riflessioni di Calvino ci porta
a comprendere come le scelte, apparentemente minime, di una congiunzione,
di un verbo, di un nome, possano cambiare il senso di ciò
che scriviamo.
Seconda condizione della leggerezza:
la narrazione d'un ragionamento o d'un processo psicologico
in cui agiscono elementi sottili e impercettibili, o qualunque
descrizione che comporti un alto grado d'astrazione. Calvino
inserisce un testo tratto da Henry James, al suo posto cito un'immagine
immortale:
spinse Ronzinante a gran galoppo
e investì il primo mulino che si trovò davanti;
diede un gran colpo di lancia alla pala, il vento la faceva girar
con tal furia che spezzò la lancia e sollevò con
sé il cavallo e il cavaliere che rotolò malridotto
per il campo.
(dal testo in spagnolo: Don Quijote de la Mancia, Miguel
de Cervantes Saavedra, Barcelona, Editorial Juventud, 1955)
Terza condizione della leggerezza:
un'immagine figurale di leggerezza che assuma un valore emblematico,
come nella novella di Boccaccio su Guido Cavalcanti.
Calvino cita altri esempi di leggerezza, i tappeti volanti delle
Mille e una notte, il Barone di Münchausen che si solleva
in volo su una palla di cannone, le streghe sulle loro scope,
insomma lo sguardo si rivolge al cielo, verso il quale saltano
la fantasia e l'immaginazione, e nel cielo splende la luna che
tanti versi e pensieri ispira ai poeti: Che fai tu luna in
ciel? dimmi, che fai,/silenziosa luna?/Sorgi la sera, e vai,/contemplando
i deserti; indi ti posi/, scrive Leopardi.
Verso il cielo si può volare anche
con un secchio vuoto, che apparentemente è l'antitesi del
pozzo. E' quello che fa der Kübelreiter, "il cavaliere
del secchio", nell'omonima novella di Franz Kafka.
Kafka racconta in prima persona di non aver più un granello
di carbone. Quando sale sopra il secchio per scivolare lungo le
scale, il secchio è così leggero che alla fine si
leva in volo. Giunge dal carbonaio e supplica un po' di carbone
a credito, ma la moglie del commerciante non ne vuol sapere e
lo scaccia con il suo grembiule. Il secchio è così
leggero che basta quel po' d'aria a spostarlo e il nostro cavaliere
vola nelle lande delle montagne di ghiaccio e si perde nel Nimmerwiedersehen
(traduzione letterale nie=mai, mehr=più, wiedersehen=arrivederci).
Scrive Calvino: Questo secchio vuoto che
ti solleva al di sopra del livello dove si trova l'aiuto e anche
l'egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di privazione e
desiderio e ricerca, che ti eleva al punto che la tua umile preghiera
non potrà più essere esaudita, apre la via a riflessioni
senza fine. L'augurio di Calvino è che ci si affacci al
nuovo millennio, e forse alle vicende della vita, con la leggerezza
di questo secchio.
Concludiamo quest'incontro con un'altra immagine
di straordinaria leggerezza: la grazia e l'amore con cui il conte
Robert de Saint Loup raggiunge l'amico Marcel Proust in un ristorante
affollato:
con la prontezza che m'aveva annunciata,
Saint-Loup riapparve sulla porta tenendo in mano il gran mantello
di vigogna del principe, al quale capii che l'aveva chiesto per
tenermi caldo. Egli mi fece segno di lontano di non disturbarmi,
e s'avanzò. Per giungere sino a me, avrebbe dovuto far
muovere ancora la mia e le altre tavole; ma, appena in sala, saltò
leggermente sulle panchette di velluto rosso che aderivano tutt'intorno
ai muri della sala e dove, oltre a me, eran seduti solo tre o
quattro giovanotti del Jockey suoi conoscenti, che non avevan
potuto trovar posto nella saletta. C'erano anche dei fili elettrici
tesi a una certa altezza fra il muro e le tavole: senza il minimo
imbarazzo, Saint Loup li saltò come un cavallo da corsa
che superi un ostacolo. Confuso che essa si esercitasse soltanto
per me e con lo scopo di evitarmi un disturbo così da niente,
io ero a un tempo meravigliato di quella sicurezza che Robert
mostrava in tal maneggio; e non ero il solo, perché (sebbene
disposti senza dubbio a gustare assai meno la cosa se fosse stata
compiuta da un cliente meno aristocratico e meno generoso), anche
il padrone e i servitori restavano a bocca aperta, come dei conoscitori
al maneggio; un garzone, come paralizzato, era là immobile
con in mano una portata che alcuni avventori aspettavano. E quando
Saint Loup, per oltrepassare quei suoi amici, salì sullo
schienale delle panchette e proseguì tenendovisi in equilibrio,
qualche applauso discreto si sollevò dal fondo della sala.
Arrivato infine a me, egli si fermò netto, con la precisione
d'un capo di sfilata davanti alla tribuna di un sovrano, inchinandosi,
mi tese con aria di cortese sottomissione il mantello di vigogna,
che subito, sedutosi vicino a me, e senza che dovessi muovere
un dito, mi accomodò, come uno scialle caldo e leggero,
intorno alle spalle.
(Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perduto - I Guermantes,
Torino, ed. Einaudi, 1978)
Il
lupo e la volpe, un finale diverso
Torniamo un attimo nel pozzo della favola
di La Fontaine e, guardando in alto la volpe che se ne va, immaginiamo
un finale diverso. Per esempio:
- il lupo è sceso nel pozzo perché inseguito da
dei cacciatori che invece uccidono la volpe;
- la volpe contratta con i cacciatori e dice loro che il lupo
in fondo al pozzo è il doppio di lei e che li aiuterà
a catturarlo; i due si calano nel pozzo aiutati dalla volpe e
restano per sempre in compagnia del lupo;
- il lupo beve tutta l'acqua e scopre un tesoro e un passaggio
di fortuna che lo porta in salvo;
- il lupo mentre scende si rende conto della beffa e strappa la
coda alla volpe;
- la volpe, una volta arrivata in cima, aiuta il lupo ad uscire,
e vissero felici e contenti;
- la volpe si mette a vender biglietti e reclamizza lo spettacolo:
"Chi vuol vedere un lupo seduto sulla luna?".
Immaginare un finale diverso, così come riscrivere l'incipit
di un'opera famosa, è uno dei più classici esercizi
di scrittura creativa. Non so se siano utili dal punto di vista
letterario, di certo ci fanno comprendere meglio come ciò
che appare scontato non lo è, ma è sempre frutto
di una scelta, di un pensiero che si dirige verso una meta, più
o meno consapevole. E, in questo muovere, il pensiero è
più simile all'uccello che alla piuma.
Marta, nell'esercitazione, ha scritto questo
finale:
Una volta giunto in fondo al pozzo, il povero lupo si rese
conto dell'astuto inganno architettato dalla volpe.
Dov'era quel pezzo di cacio tanto desiderato? Sparito nel nulla.
Anzi, ora era addirittura costretto a sopportare il continuo vocìo
e le risate soddisfatte della volpe che dall'imboccatura del pozzo
si faceva beffe di lui.
Decise così di giocarle un brutto scherzetto e cominciò
a fingere che il formaggio, là in fondo, ci fosse veramente.
Fu talmente bravo a descriverne la bontà, il sapore squisito
ed il gusto prelibato che la volpe, dapprima incredula, a poco
a poco cominciò a convincersi.
Possibile che il formaggio ci fosse stato veramente? Quando c'era
stata lei giù nel pozzo non l'aveva trovato, eppure ora
riusciva quasi a sentirne il profumo.
Finalmente decisa, la volpe risaltò nel secchio mentre
il lupo si lasciò ritrasportare fuori e con un agile balzo
fuggì via per i campi.